Itadakimasu

Itadakimasu: piccole storie per svelare il nostro rapporto col cibo (e con gli altri).

In cucina esistono due tipi di storie. Ci sono le grandi storie, quelle dettate dal Tempo e da avvenimenti di portata planetaria: sono le storie che parlano di nazioni e di frontiere, ma anche di leggende e di migrazioni straordinarie, tanto di persone quanto di ingredienti. Sono le storie raccontate finora con La cucina geografica.

E poi ci sono le piccole storie: sono quelle che ci riguardano da vicino, che segnano il nostro rapporto col cibo – di amore o di odio – e che in un certo senso danno la misura di come ci piace stare al mondo e in relazione agli altri. E sono le storie che vorrei iniziare a raccontarvi.

Proprio per fare ciò, mi sono lasciato ispirare dalla meravigliosa opera collettiva dell’architetta belga Françoise Schein, Le Grand Banket, realizzata nel 2016 con la preziosa partecipazione di centoventi abitanti del quartiere Saint Catherine, a Bruxelles. L’ho scoperta per caso nella mia prima passeggiata nella capitale, da quando mi sono trasferito in Belgio, e fin da subito mi ha fatto battere il cuore.

“Le grand Banket” è un tavolo lungo venti metri su cui sono raffigurati dei piatti “pensati e dipinti” da chi abita il quartiere, per raccontare cosa significa mangiare insieme. Tantissime le interpretazioni, da quelle più realistiche con legumi, pesce e carne, a quelle più immaginifiche ed astratte. 

Sono tante piccole storie che prendono posto – è il caso di dire – a questo banchetto urbano. I piatti sono in bianco e nero eppure così tremendamente vivi, come se potessero materializzarsi da un momento all’altro.

Riprendendo quel mio desiderio, anche a me piacerebbe portare in tavola i racconti culinari di ognuno di noi. Così, stimolato dal gran banchetto della Schein, ho immaginato una grande tavola virtuale dove ognuno potesse far scoprire un po’ della sua mappa gastronomica: quella di ogni giorno, quella sognata e ideale e quella intima e personale.

Se le ricette che ho descritto fino ad ora erano pensate come un ponte tra culture lontane, queste piccole storie vogliono essere il tentativo di raccontare come la cucina possa creare dei ponti anche tra le singole persone. Tenendo sempre a mente una delle caratteristiche principali di questo piccolo-grande progetto che è La cucina geografica: la meta è sempre quella di sperimentare diversi modi di pensare e vedere il mondo. 

Ma invece di attraversare Stati e confini, lo faremo assieme attraversando le parole di chi ci è accanto, di quell’amico o di quella collega, di quello “sconosciuto”. E ogni volta potremmo essere in comunicazione, ritrovando parte di noi nelle parole o nell’immaginario culinario dell’altro, oppure essere totalmente agli antipodi ma pur sempre in relazione, riconoscendoci nella diversità.

Infatti, come ci riporta l’antropologa Margaret Visser: “Il cibo non è mai solo una cosa che mangiamo. Usiamo il mangiare come mezzo di relazioni sociali: l’appagamento del più individuale di tutti i bisogni diventa un mezzo per creare comunità”.

Ad esempio può bastare un piatto di gnocchi per raccontare il calore di una domenica d’inverno passata in famiglia; baguette, formaggio e vino rosè parleranno per sempre di Parigi ma non sarebbero la stessa cosa se non fossero stati mangiati insieme alla persona che amiamo, seduti sulla mappa della città in riva alla Senna; e magari è proprio quella ricetta straniera che ordiniamo sempre al ristorante che parla di ciò che desideriamo molto di più di quanto possano farlo le parole.

In fondo, i piatti che mangiamo fanno la geografia di quello che siamo: esistenze in relazione. 

Vi presento quindi questa nuova sezione del blog. Il format sarà quello di un’intervista e per il nome ho deciso di prendere in prestito un vocabolo giapponese: itadakimasu. Questo termine potrebbe essere tradotto in italiano come “buon appetito” perché lo si pronuncia appena ci si mette a tavola, poco prima di mangiare, ma sarebbe un errore. 

Infatti, itadakimasu – che affonda le sue radici nel buddhismo – significa letteralmente “prendere” ed è una forma di ringraziamento sia nei confronti di chi ha preparato il piatto, sia verso il cibo stesso. Si mostra allora gratitudine perché senza la vita così donata non sarebbe stato possibile essere a tavola. 

In questo senso, vorrei ringraziare allora chi metterà a disposizione parole e storie per dare vita a questa rubrica, svelando qualcosa in più di sé stesso in una narrazione che contempla non solo il cibo ma inevitabilmente anche gli altri. Itadakimasu!

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